Il feedback diretto è welfare organizzativo (anche se nessuno te lo dice)

C’è una verità scomoda di cui si parla poco quando parliamo di benessere organizzativo: l’armonia può diventare tossica.Lavoro da anni con aziende che investono molto in welfare, wellbeing, equilibrio vita-lavoro. Piattaforme sofisticate, servizi di qualità, budget importanti. Eppure, quando entro in quelle organizzazioni, percepisco un malessere silenzioso.

Le persone sono gentili. Sempre. Troppo gentili. Nessuno dice quello che pensa davvero. Nessuno mette in discussione le idee altrui. Nessuno dà feedback diretto. Si evitano le conversazioni difficili in nome di una “cultura positiva” che, in realtà, sta bloccando la crescita di tutti.

Si chiama armonia tossica: quando la gentilezza e la cura relazionale diventano alibi per evitare il conflitto costruttivo.

Quando l’eccesso di gentilezza diventa evitamento

Un recente articolo di Harvard Business Review, “Building a Company Culture That Encourages Feedback”, mette il dito su questo paradosso. Nelle organizzazioni dove si valorizza molto l’armonia, le persone sviluppano una paura profonda di dire verità scomode.

Non si tratta di essere scortesi o aggressivi. Si tratta di dire: “Questo progetto ha un problema strutturale” o “Il tuo modo di comunicare in riunione genera confusione” o “Questa decisione non è coerente con i nostri valori”. Ma se la cultura aziendale ha santificato l’armonia, queste frasi diventano impronunciabili. E così le persone scelgono il silenzio.

Il problema è che il silenzio non è neutralità. È complicità. Complicità con la mediocrità, con le disfunzioni, con le dinamiche che non funzionano ma che nessuno ha il coraggio di nominare.

E mentre tutti sorridono e annuiscono, l’innovazione si ferma, la performance ristagna, i talenti migliori se ne vanno. Perché le persone capaci hanno bisogno di verità per crescere, non di pacche sulle spalle.

Il vero benessere include la franchezza costruttiva

Qui sta il punto che molte organizzazioni non capiscono: il benessere organizzativo non nasce solo da relazioni positive. Nasce da una comunicazione interna che integra anche la franchezza costruttiva.

Il vero benessere non è “stare bene sempre”. È avere la sicurezza psicologica per dire e ricevere verità che aiutano a crescere.

Quando una cultura aziendale normalizza il feedback diretto, non aggressivo ma chiaro e specifico, accadono tre cose straordinarie. Le persone crescono davvero, perché ricevono informazioni concrete su cosa funziona e cosa no nel loro lavoro. Non più feedback generici una volta all’anno, ma conversazioni continue che guidano il miglioramento.

L’innovazione accelera, perché si possono mettere in discussione idee, processi, decisioni senza paura di offendere qualcuno. E l’innovazione nasce proprio dal confronto di prospettive diverse, anche quando generano attrito.

La fiducia si rafforza, perché l’autenticità batte sempre l’armonia di facciata. Quando le persone sanno che in azienda ci si dice le cose direttamente, senza giri di parole, si sentono rispettate come adulti capaci di gestire la verità.

Ma quante organizzazioni hanno davvero costruito una cultura del feedback strutturato? Poche. La maggior parte confonde il benessere con l’assenza di conflitto. E così crea zone di comfort che diventano zone di stagnazione.

Il feedback come pratica di welfare

Questa prospettiva è radicale, lo so. Ma sono convinta che il feedback diretto sia welfare organizzativo. Perché aiuta le persone a diventare versioni migliori di sé stesse. A sviluppare competenze. A correggere comportamenti disfunzionali prima che diventino problemi. A capire dove stanno eccellendo e dove devono migliorare.

Pensateci: cosa serve di più a una persona per stare bene al lavoro? Un buono pasto o la chiarezza su come sta performando? Una convenzione per la palestra o un manager che le dice con franchezza dove può crescere? Una piattaforma welfare o una cultura che la tratta come un adulto capace di gestire feedback diretto?

Non sto dicendo che il welfare tradizionale non serva. Serve eccome. Ma diventa sterile se non è accompagnato da una cultura della verità. Perché puoi offrire tutti i servizi del mondo, ma se le persone vivono in un ambiente dove non possono essere autentiche, dove devono fingere armonia anche quando percepiscono disfunzioni, il loro benessere psicologico è compromesso.

La sfida multigenerazionale

C’è un’altra dimensione che rende questo tema ancora più urgente: la convivenza multigenerazionale nelle organizzazioni. Le generazioni più giovani sono cresciute con feedback continuo. Videogiochi che ti dicono in tempo reale se stai vincendo o perdendo. Social media che ti danno metriche istantanee. Hanno un’aspettativa di feedback frequente e specifico.

Le generazioni precedenti sono state abituate a ricevere feedback una volta all’anno, nella valutazione formale. E spesso feedback generici, poco utili.

Questa differenza crea attriti invisibili. I più giovani percepiscono l’assenza di feedback come disinteresse. I più senior percepiscono la richiesta di feedback continuo come insicurezza.

Come si risolve? Con una cultura del feedback strutturato che diventa la lingua comune dell’organizzazione. Non più “feedback quando serve”, che significa quasi mai. Ma feedback come pratica quotidiana, normalizzata, parte del modo di lavorare insieme.

E questa pratica deve essere insegnata, allenata, supportata. Perché dare e ricevere feedback diretto è una competenza, non un talento naturale.

Come integrare il feedback nel benessere organizzativo

Se siete convinti che il feedback diretto sia parte del benessere organizzativo, la domanda è: come lo integrate concretamente?

Formare i manager sulla comunicazione diretta è il primo passo. La maggior parte dei manager non ha mai ricevuto formazione su come dare feedback efficace. Lo fanno per istinto, spesso male, generando più danni che benefici. Investire nella formazione manageriale sul feedback è welfare organizzativo strutturato.

Serve creare rituali di feedback regolari. Non solo la valutazione annuale, ma momenti brevi, frequenti, specifici. Check-in settimanali, retrospettive di progetto, sessioni di peer feedback. Quando il feedback diventa routine, smette di essere minaccioso.

Nelle indagini sul benessere organizzativo, chiedete: “Ricevi feedback utile e tempestivo sul tuo lavoro?” “Ti senti libero di dare feedback al tuo manager?” “La cultura aziendale incoraggia conversazioni dirette?” Misurate la qualità della comunicazione interna, non solo la soddisfazione generica.

Lo storytelling è potente anche qui. Condividere storie di persone che hanno ricevuto feedback difficile e lo hanno usato per migliorare normalizza la pratica. Mostra che il feedback non è punizione, ma investimento nella crescita.

E il feedback non può essere fine a se stesso. Deve essere collegato a percorsi di sviluppo concreti. “Ti ho dato questo feedback, ora ecco le risorse per migliorare in quell’area.” Così il feedback diventa strumento di empowerment, non giudizio sterile.

La franchezza come atto di cura

C’è un ultimo punto che voglio sottolineare, perché è quello che genera più resistenze. Molte persone pensano che la franchezza sia incompatibile con la cura. Che dire verità difficili significhi essere insensibili.

Ma è esattamente il contrario. La franchezza è l’atto di cura più profondo che puoi avere verso qualcuno. Perché significa: ti rispetto abbastanza da dirti la verità, anche se è scomoda. Ti considero capace di gestire questa informazione e usarla per crescere. Mi interessa il tuo sviluppo abbastanza da rischiare un momento di disagio.

L’armonia tossica, invece, è indifferenza travestita da gentilezza. “Non ti dico quello che penso perché tanto non mi interessa il tuo miglioramento. Preferisco evitare il disagio di una conversazione difficile.”

Nelle organizzazioni dove ho visto culture del feedback davvero mature, la franchezza convive con la cura. Anzi, la rafforza. Le persone si dicono le cose, ma lo fanno con rispetto, specificità, orientamento alla soluzione. Non per ferire, ma per aiutare. E in quelle organizzazioni, il benessere è reale. Non è armonia di facciata. È autenticità vissuta.

Il silenzio è il nemico nascosto

Se c’è una cosa che vorrei lasciare dopo questa riflessione è questa: il silenzio è il nemico nascosto del benessere organizzativo. Il silenzio su cosa non funziona, su comportamenti disfunzionali, su feedback che potrebbero aiutare le persone a crescere. Quel silenzio, mascherato da armonia, sta consumando il potenziale delle vostre organizzazioni.

E la soluzione non è creare conflitto fine a se stesso. È costruire una cultura dove il feedback diretto diventa pratica di cura collettiva. Dove le persone sanno che dire e ricevere verità è parte del modo in cui si lavora insieme. Dove la franchezza costruttiva è welfare organizzativo, perché sostiene la crescita di tutti.

La domanda non è “Dobbiamo essere più gentili o più diretti?” La domanda è: “Come costruiamo una cultura dove franchezza e cura coesistono?” Perché solo lì, in quello spazio, nasce il benessere organizzativo autentico.

Nella tua organizzazione, le persone si dicono le cose? O l’armonia è diventata un modo per evitare conversazioni difficili?

Fonte: https://hbr.org/2025/10/building-a-company-culture-that-encourages-feedback?utm_medium=email&utm_source=newsletter_weekly&utm_campaign=insider_Active&deliveryName=NL_TheInsider_20251027

 

***

Ciao, sono Marta Fornasiero, consulente Corporate Communication. Affianco le aziende nel costruire una comunicazione interna che non evita le verità scomode, ma le trasforma in opportunità di crescita collettiva. Perché il vero benessere organizzativo nasce dall’ascolto e dal dialogo, non dal silenzio.

Condividi questo articolo